E’ forse l’articolo del Credo più difficile da comprendere
usando la sola ragione. Si riferisce infatti ad avvenimenti che sono al di
fuori delle dimensioni umane, quelle che chiamiamo spazio e tempo e dove
collochiamo la materia che è contenuta nel cosmo.
L’utilizzo di espressioni e immagini, per l’appunto umane,
rende quegli avvenimenti assolutamente incomprensibili se pensati con la sola
ragione e il loro significato fuorviante rispetto alla loro corretta
comprensione. D’altra parte è la presunzione dell’uomo che porta a concludere
che ciò che è invisibile non può esistere.
E’ in queste occasioni che la Fede diventa prioritaria. Fede
che non deve essere confusa con la fiducia. La Fede è un dono, un dono
personale, è la spontanea accettazione di ciò che è incomprensibile per la
ragione e l’intelligenza, è una virtù che lo stesso Cristo ha esaltato dicendo “beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Giovanni 20,29).
La prima parte dell’articolo, quel “salì al cielo” si riferisce ad un
evento miracoloso cui gli apostoli assistettero. Di esso nulla dicono Matteo e
Giovanni, gli unici evangelisti che erano apostoli e che erano dunque presenti in
quei giorni.
Marco, discepolo di Pietro, che scrisse quanto questi
predicava, racconta (16,19): “Il Signore Gesù,
dopo aver parlato con loro, fu assunto al cielo…”.
A sua volta Luca, “compagno
di lavoro” di Paolo, come l’apostolo delle genti lo definì nella Lettera a Filemone, anch’egli scrisse di
quanto costui andava predicando e aggiunse maggiori dettagli (24, 50-53)
collocando l’evento sul Monte degli Ulivi: “Poi
li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li
benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo”.
Negli
Atti degli Apostoli (1, 1-11), infine, si precisò ancora meglio: “Detto questo,
fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”.
Anche se alcuni teologi (Jurgen Moltmann, Karl Rahner) sostengono
che gli apostoli non assistettero ad alcuna ascensione fisica ma si convinsero
che Cristo, risorto, non poteva che “ritornare”
al Padre ed espressero tale concetto con parole umane, nulla vieta di pensare
che il “fu elevato in alto sotto i loro
occhi” possa essere comunque considerato un avvenimento storico anche se di
natura trascendente e, quindi, miracolosa.
Qui si impongono alcune considerazioni.
La prima riguarda i miracoli, cioè quegli eventi
straordinari, inspiegabili fisicamente, ma di cui sono piene le cronache dei
Vangeli e quelle dei duemila anni che a quei tempi seguirono.
Se accettiamo che il Creatore dal nulla ha creato “tutte le cose” come possiamo dubitare
che, in determinate circostanze, non abbia potuto effettuare quei miracoli cui
la nostra ragione si rifiuta di considerarli veri? Andate a chiederlo alla
moltitudine di persone (stimata tra trenta e cento mila) che cent’anni fa, il 13
ottobre 1917, a Cova da Iria, vicino Fatima, assistettero al miracolo del sole
che, per una decina di minuti, cambiò colore, dimensione e posizione. Hanno
forse tutte mentito e nulla successe di quanto riportato sulla stampa portoghese
il giorno dopo?
La seconda considerazione riguarda il concetto di cielo e,
quindi, di Paradiso. Lo abbiamo da sempre metabolizzato come un luogo fisico,
gli abbiamo attribuito persino un colore, il celeste, tanto che diciamo “Padre celeste” parlando di Dio. No, il “cielo” non è un luogo fisico, ma un non luogo di cui non possiamo nemmeno
intuire la natura, ma che ci riporta al soprannaturale, alla natura divina di
Dio, un non luogo dove la natura
umana e la natura di Dio si incontrano intimamente e definitivamente. Nel
concetto di “cielo” sparisce il sopra e il sotto, le quattro
dimensioni spazio temporali diventano dimensioni metafisiche. L’elevazione al “cielo” e l’essere avvolto dalla nuvola
che lo sottrae allo sguardo sono quindi mere espressioni teologiche che preludono
al distacco dal mondo, le dimensioni spazio-temporali, in cui siamo immersi e
al celare la divinità al fenomeno ottico della vista terrena. E’ un modo umano
per descrivere il Cristo che, quasi rapito, si riunisce al Padre, là dove lo
spazio e il tempo non esistono e dove, se lo meritiamo, un giorno siamo
destinati ad essere, riunendoci con tutti i nostri simili.
Il Risorto è “salito in
cielo”, cioè è tornato dal Padre. Il suo corpo terreno è diventato la
Chiesa che rimane in Terra per annunciare al mondo la promessa della vita
eterna: “Io vado a prepararvi un posto…
perché siate anche voi dove sono io” (Giovanni 17,2-4).
Le “porte del Cielo”
che si erano chiuse con la cacciata di Adamo, sono ora aperte per chi merita di
oltrepassarle, come dirà il settimo articolo del nostro Credo. Cristo è diventato
il nostro avvocato presso il Padre: “voglio
che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino
la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della
creazione del mondo”. (Giovanni 17,24).
Analoghe
considerazioni vanno fatte riguardo l’espressione “discesa agli inferi” che non va intesa come un improbabile
sprofondare nel cosmo verso un “sotto”
che non esiste, ma come uno sprofondare dell’anima nell’abisso della solitudine,
richiudendoci nel nostro “io”,
nell’assenza di Dio. Il cosmo non c’entra.
E
lo stesso vale per il tempo. Nell’eternità non c’è un prima e un dopo, ma l’eternità
non è neppure a-temporalità. Joseph Ratzinger, nel suo Introduzione al Cristianesimo, la descrive come qualcosa che non è
“chiusa in un prima e un dopo, ma è la
potenza del presente in ogni tempo… che comprende il tempo che passa nel suo
unico presente”. L’eternità è il presente di ogni tempo che vive presente
in Dio e noi con Lui. Sempre per citare il futuro Benedetto XIII “il limite biologico viene superato e viene
creato un nuovo spazio di esistenza”.
Mi
piace pensare che in questo nuovo spazio, in questa “eternità” senza tempo
ritroviamo ogni istante della nostra
vita, saremo contemporaneamente il bambino, il giovane, l’adulto, l’anziano che
siamo stati e, allo stesso modo, saremo assieme a tutti coloro che abbiamo
conosciuto e con i quali abbiamo condiviso, per qualche tempo, il nostro
personale viaggio terreno.
Solo
così riesco in un certo modo a dare significato a quello che chiamiamo “giudizio finale” che indichiamo “alla fine dei tempi”, fine dei tempi
che, ne sono convinto, si riferisce individualmente a ciascuno di noi, alla
fine del nostro individuale tempo e non ad una futuribile fine del Creato.
Quanto al sedersi “alla
destra di Dio Padre onnipotente”, è questa l’ennesima povera espressione
umana per esprimere un concetto di ben più ampio significato: la glorificazione
di Gesù come Cristo, Figlio di Dio, da sempre consustanziale al Padre. Si
tratta di una metafora usata già nel Salmo 110, salmo di intronizzazione del
Re, con l’invito del Re messianico “Siedi alla mia
destra” rivolto al Figlio come massimo onore. Figlio che avrebbe “corretto i giudici della terra” ed
esteso il suo potere fino all’estremità del mondo abitato.
Come per tante altre espressioni, non siamo in grado di
esprimere concetti trascendenti se non applicando, direi indulgendo, a paragoni
umani attribuendo a Dio, e al Cristo risorto asceso al cielo, concetti umani,
certo non consoni al loro essere puro spirito.
Salvatore