“Ma
se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana
anche la vostra fede”. (Paolo, Lettera ai Corinzi,
14).
Se possiamo, anche con la
ragione, credere all’esistenza di un Dio, di un creatore di tutto il visibile,
è il quinto articolo del Credo che ci fornisce l’argomento senza il quale non
potremmo essere cristiani, credendo in Cristo Gesù. E’ la sua Resurrezione che
caratterizza il Cristianesimo. Senza di quella Dio sarebbe il Creatore e Gesù
uno dei tanti predicatori di cose buone e giuste ma con l’aggravante di averci
ingannato facendoci credere di essere Dio. Noi uomini moriremmo senza futuro,
cesseremmo di esistere come un qualsiasi altro animale, non ci sarebbe
giustizia divina, tutti i nostri sacrifici per aver condotto una vita buona e
santa in ossequio ai comandamenti divini, tutta fatica sprecata davanti al
nulla. Trionferebbe il sorriso beffardo di chi ha vissuto la vita in modo
egoistico prendendosi gioco di noi sciocchi credenti.
E’ invece la sua
resurrezione a capovolgere e darci gloriosa certezza e beata speranza: la
nostra fede è genuina, il perdono dei peccati assicurato, il futuro, la vita
eterna sono certi.
Ma la resurrezione
dell’uomo Gesù è avvenuta dopo la sua morte, morte vera e sepoltura vera come
enuncia il “discese agli inferi” del
quinto articolo del Credo. Discesa che non rappresenta però un viaggio
nell’aldilà come immaginò di fare Dante o come Virgilio raccontò nel sesto
libro dell’Eneide con la Sibilla che porta Enea nell'antro che conduce all'Ade.
Il “discese agli inferi” rappresenta
la morte dell’uomo ma anche il silenzio di Dio che segue la drammatica
preghiera di Gesù in croce: ”Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?” (Marco 15,34). Preghiera che si trasforma
nei nostri quotidiani interrogativi: “perché?”,
“dove sei?” di fronte alle tragedie
umane che ci colpiscono e che ci fanno avvertire solitudine e abbandono come
bambini al buio da soli e che fecero dire a Joseph Conrad (in Cuore di tenebra): “Si vive come si sogna. Soli”.
Basta però la mano di
mamma che al buio stringe la nostra per far passare il terrore.
“Discese agli inferi” significa quindi che l’uomo Gesù ha realmente sentito,
come uomo, la solitudine e l’abbandono, ha realmente vissuto la morte,
varcandone la soglia. Intuiamo allora che l’inferno non è un luogo fisico ma
una condizione dell’anima, l’assenza della mano di Dio che ci prende e ci “risuscita”, l’amore che trionfa sulla
morte.
E’ vero, noi possiamo
continuare, per un certo tempo, a vivere in chi abbiamo generato, nel ricordo
di ciò che abbiamo creato, ma lo facciamo come ombre, le ombre dell’Ade
virgiliana. La resurrezione è ben altro, tocca personalmente la nostra anima
non il ricordo più o meno lungo di ciò che lasciamo, non è un fatto biologico
ma una “vita nuova” che Paolo
intravvede perché la resurrezione di Cristo è la nostra vita, se egli è risorto
anche noi risorgeremo: “Io sono la
risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Giovanni
11,25).
La domanda che a questo
punto ci poniamo è: come possiamo, ragionevolmente, credere che “il terzo giorno risuscitò da morte” e
che “… dalle tenebre/La diva spoglia
uscita,/Mise il possente anelito/Della seconda vita” (Manzoni, “La Pentecoste”)?
Nessuno assistette
all’evento del risorgere di Gesù. Dobbiamo fidarci della testimonianza di coloro
che, “assai di buon’ora”, quella
domenica mattina, andarono al sepolcro e vi giunsero “essendo sorto il sole” (Marco 16,2). Trovarono la tomba vuota,
malgrado Pilato avesse fatto mettere il
sigillo e comandato ai soldati di custodirla per tre giorni temendo che i suoi
discepoli trafugassero la salma, perché Egli aveva predetto che sarebbe risorto
il terzo giorno.
Dobbiamo
fidarci delle
testimonianze dei tanti, oltre cinquecento, che lo “videro” dopo la sua morte fisica, e la cui testimonianza è raccontata
nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli?
Tutto ciò dovrebbe
bastare. Ma c’è una prova che possiamo vedere anche oggi e che, nella sua
straordinaria concretezza, può aiutarci a convincerci che quell’evento
straordinario è realmente avvenuto: la Sacra Sindone.
Non
sappiamo, e forse non sapremo mai con certezza, se il telo di lino di probabile
origine indiana che chiamiamo Sacra Sindone (Sindone
deriva da Sindia o Sindien, termini con i quali si
indicavano i tessuti provenienti dall’India indossati all’epoca dai grandi
sacerdoti) sia effettivamente il lenzuolo che ha avvolto Gesù Cristo dopo la
sua crocifissione.
Ma
due cose sappiamo con certezza. Che i segni lasciati su quel telo, in
particolare le macchie di sangue e di siero, non sono opera dell’uomo, malgrado
qualcuno sostenga che possano essere opera di un “abile artigiano”, talmente abile che finora non si è
riusciti a riprodurli completamente.
Ancora
più significativa e profonda la seconda certezza: quei segni, tutti quei segni,
qualunque ne sia la loro origine, sono la puntuale e completa testimonianza, e
conferma, della narrazione evangelica della passione e resurrezione di Gesù
Cristo, narrazione che assume così carattere storico.
Come
ha detto Benedetto XVI sostando commosso davanti alla tela, sono "icona
del Sabato Santo" che è "giorno del nascondimento di Dio",
ma anche giorno in cui "proprio dalla morte del Figlio di Dio è
spuntata la luce di una speranza nuova, la luce della Resurrezione".
Gli studi fatti con le
tecniche più sofisticate oggi disponibili confermano che quel lenzuolo (442 cm
di lunghezza per 113 di larghezza) ha avvolto il cadavere di un uomo crocefisso
dai romani nel primo secolo e i segni che quel corpo ha lasciato sul telo sono
la testimonianza tangibile, nei minimi dettagli, della Passione di Gesù come
descritta nei vangeli, sono la testimonianza tangibile di quanto grande può
essere la crudeltà umana.
L’esame ematologico del
sangue del costato destro dimostra trattarsi di sangue morto, separato dal
siero. Al contrario di quello su fronte, polso, nuca e piedi che è “vivo”. Il sangue è di tipo AB come
quello del miracolo eucaristico di Lanciano e del Santo Sudario custodito ad
Oviedo.
Mancano sul telo i segni
di putrefazione che normalmente si sviluppano dopo le 40 ore. Segno che, come
raccontano i Vangeli, Gesù è rimasto nel sepolcro dalla sera di venerdì
all’aurora della domenica, non più di 30-35 ore e che “…il terzo giorno risuscitò da morte, secondo le Scritture”, come
recita il Credo di Nicea-Costantinopoli.
Rimane inesplicabile il modo con
cui è finito il contatto tra il corpo e il lenzuolo che lo conteneva. Non c’è
traccia alcuna, sulla tela, del movimento materiale che dovrebbe esserci stato
se qualcuno avesse fisicamente rimosso e “portato via” il cadavere. Mancano
infatti le inevitabili compressioni o striature, mancano alterazioni alle
macchie di sangue preesistenti, come se il corpo avesse levitato e
successivamente si fosse de-materializzato, non più soggetto alle leggi
naturali.
I cristiani chiamano questo
processo “risurrezione”. Nessuno dei coaguli di sangue, duri ma fragili ad uno
spostamento, risulta spezzato e la loro forma, incollata al lino, è rimasta
inalterata. Secondo le più recenti ricerche l’immagine si sarebbe creata a
causa di radiazioni generatesi durante un processo di annichilazione
materia-antimateria.
E’
questa la “mutazione
evolutiva che “non rappresenterebbe più un gradino
biologico, ma significherebbe il sottrarsi alla tirannia della vita biologica,
che è al contempo signoria della morte; esso darebbe accesso a quella sfera che
la Bibbia greca chiama “zo e”, ossia vita definitiva, la quale si è ormai
lasciata alle spalle il dominio della morte” (Joseph Ratzinger, “Introduzione al Cristianesimo”, pag. 295).
Così, «la
resurrezione» scrive Fabrice Hadjadj «non è più solo il luogo della fede nella vita
eterna, ma è anche la ragione per dare la vita temporale a dei piccoli
mortali».
Il risorto
ha insegnato nei quaranta giorni in cui è rimasto con i suoi discepoli «a non
vedere più lui, ma a vedere ogni cosa in lui, e riconoscere la sua gloria
ovunque affiori nel quotidiano».
Salvatore
Salvatore
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