Alla domanda se credo in Dio ho risposto affermativamente
perché la ragione mi porta a concludere che, se c’è un creato, ci deve essere
un Creatore. Il passo successivo è stato comprendere la ragione per cui il
Creatore ha creato: lo ha fatto per amore e, per amore, si è fatto conoscere a
noi creature tramite Gesù, il Cristo, come ci hanno raccontato i testimoni che
lo videro, ascoltarono le sue parole e ce le riferirono annunciandoci il
Vangelo.
A questo punto sorge un’altra domanda. Ma Gesù è veramente
esistito oppure, come da secoli si affannano a negarlo i tanti che lo
considerano un mito, è solo il frutto di una leggendaria invenzione di
fabbricatori, invero abili, di una bella favola? Uno di loro, il tedesco Bruno
Bauer (1809-1882), arrivò a dire che Gesù è “il prodotto, non il produttore, del cristianesimo”.
Oggi i negazionisti sono una minoranza e persino Voltaire
ebbe a dire che appaiono “più ingegnosi
che colti”. Tuttavia la domanda resta ed è di parte sostenere che è
esistito perché ce lo dicono i Vangeli, visto il chiaro conflitto di interessi.
E’ proprio il quarto articolo del Credo che ci suggerisce,
indirettamente, la risposta alla domanda che poteva essere considerata
pretestuosa e irriverente e che invece è logica e doverosa.
Nella sua sintetica enunciazione esso ci invita a credere
che c’è stato un Uomo che “patì sotto
Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto”.
E allora domandiamoci: di questo fatto storico ci sono
evidenze al di là di quello che ci raccontano gli evangelisti, San Paolo e gli
altri supposti fabbricatori della bella favola?
La risposta è affermativa e, proprio perché chi lo afferma spesso
parla in tono negativo dei cristiani, appare ancor più veritiera, confermando
indirettamente quanto “La santa madre
Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i
quattro Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono
fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio… operò e insegnò” (Costituzione Dogmatica Dei Verbum sulla
divina Rivelazione, 1965).
Forse la più antica fonte storica che parla di Cristo è una
lettera riportata in un manoscritto custodito nella British Library di Londra e scritta in lingua siriana da un
filosofo stoico siriano, Mara Ben Serapion, lettera risalente ai primi anni 70
dopo Cristo, in cui si parla dei Giudei in fuga dopo la distruzione di
Gerusalemme dell’anno 70 da parte dell’imperatore romano Tito e della “uccisione del loro re saggio”.
Di poco successiva la testimonianza dello storico ebreo Yosef
ben Matityahu, meglio noto come Giuseppe
Flavio (37-100), autore di “Antichità giudaiche”, un opera scritta in greco
nel 93-94 nel corso della quale si parla di Gesù in un brano noto come “Testimonium
Flavianum”: “Allo stesso tempo circa, visse Gesù, un uomo saggio, seppur
conviene chiamarlo uomo poiché egli compì opere straordinarie, e fu maestro di
persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò sia molti Giudei
che molti Greci. Quando Pilato udì che era accusato dai principali nostri
uomini, lo condannò alla croce, (ma) coloro che fin dal principio lo avevano amato
non cessarono di aderire a lui… E ancora fino ad oggi non è venuta meno la tribù di
coloro che da lui si sono detti Cristiani”.
E’ un ebreo che conferma quanto indicato del quarto articolo del Credo.
La riprova ci viene dal più grande storico romano, Publio Cornelio Tacito (55-125). Nel
capitolo 44 dei suoi Annali, scritti
tra il 114 e il 120, indica i cristiani come coloro sulle cui spalle Nerone fa
cadere la colpa dell’incendio che distrusse Roma (18-27 luglio dell’anno 64)
per “soffocare la voce infamante che
l’incendio fosse stato (da lui) comandato. Allora per troncare la diceria,
Nerone spacciò per colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati quelli che le
loro nefandezze rendevano odiosi e che il volgo chiama “crestiani”. Colui da
cui essi prendevano quel nome, Cristo, era stato messo a morte sotto l’impero
di Tiberio ad opera del procuratore Ponzio Pilato”.
Trent’anni dopo la morte di Cristo i cristiani erano già a
Roma, i Vangeli non erano stati scritti, nessun fabbricatore aveva inventato la
bella favola, ma loro c’erano! Non solo. A Cesarea Marittima, la città romana costruita
da Erode, una cinquantina di anni fa fu scoperta una lapide con l’iscrizione “(PO)NTIUS PILATUS (PRAEF)ECTUS IUDA(EA)E”.
Anche Ponzio Pilato non è dunque un mito: quella pietra conferma, se ce ne
fosse bisogno, che costui fu governatore romano in Palestina dal 26 al 36.
Contemporaneo di Tacito fu Svetonio che nella Vita di
Claudio, scritta intorno all’anno 120, racconta che quei “giudei, che tumultuavano continuamente per istigazione di Cresto,
furono cacciati da Roma”.
Di qualche anno prima (112-113) è la celebre “lettera 96” di Plinio il Giovane che, mentre era governatore in Bitinia, scriveva
all’imperatore Traiano citando più volte Cristo. Parla del cristianesimo come
di una “pazzia” e di “superstizione perversa” e riferisce della
“pertinacia e inflessibile ostinazione”
con la quale i cristiani professano da anni la loro fede a Roma. Di essi cita
la “consuetudine di riunirsi in un giorno
determinato prima dell’alba per cantare alternativamente fra loro un inno in
onore di Cristo come se fosse un dio”.
Ancora più precisa la testimonianza del filosofo greco Celso, di ispirazione platonica,
vissuto nel II secolo. Nell’anno 175 scrive un “Discorso vero contro i cristiani”, un’opera non ci è giunta in
originale ma grazie alle numerose citazioni che di questa, 75 anni dopo, fece Origene di Alessandria (185-254),
teologo e filosofo cristiano, confutando le tesi che Celso sosteneva nel suo
libello.
Da Celso Gesù era accusato “di aver inventato la storia della sua nascita da una vergine”, “di aver avuto per madre una povera donna di
campagna… cacciata da suo marito falegname di mestiere, essendo stata accusata
di adulterio” e che “spinto dalla
povertà andò in Egitto a lavorare a mercede, e avendo quindi appreso alcune di
quelle arti segrete per cui gli Egiziani sono celebri, ritornò dai suoi tutto
fiero per le arti apprese e, grazie ad esse, si proclamò da se stesso Dio”.
Un’altra testimonianza ci viene, tra le tante altre, dallo
scrittore greco Luciano di Samotracia
(120-180) che, nella sua “Istoria della morte
del filosofo Peregrino” ironizza sui cristiani: “questa razza di gente adora quel grand’uomo il quale fu crocifisso in
Palestina perché fu il primo ad insegnare agli uomini quella religione”.
Ebbene, nessuno di costoro, seppure nemici dei cristiani,
mette in dubbio l’esistenza di un uomo chiamato Cristo, il “re buono” che “compì opere straordinarie, e fu maestro” per “coloro che da
lui si sono detti Cristiani” e che “fin
dal principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui” e continuano
a farlo “fino ad oggi “.
Aldilà delle considerazioni storiche, sono quelle
escatologiche che danno a questo quarto articolo del nostro Credo particolare rilevanza.
Sappiamo che il Creatore ha mandato suo Figlio in terra “per amore”, per riscattarne, tramite il
suo sacrificio, i peccati dell’uomo secondo un disegno, un progetto divino già
indicato dagli antichi Profeti. E Gesù, l’“uomo
dei dolori”, come descritto nell’impressionante Canto del Servo Sofferente, (Isaia 53,3-12), scritto profeticamente
nell’VIII secolo a. C.
Fu con il malvagio la sua tomba, e con il ricco nelle
sue morti
perché non aveva commesso alcuna violenza
e non c’era stato alcun inganno nella sua bocca.
Ma il Signore desiderò percuoterlo e farlo
soffrire.
Se egli pone la sua vita come offerta per la colpa,
egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi
giorni,
e la volontà del Signore prospererà nelle sue
mani.
Egli vedrà il frutto del travaglio della sua anima e
ne sarà soddisfatto.
Con la sua conoscenza, il giusto, il mio servo,
renderà giusti molti,
e si caricherà delle loro iniquità.
Perciò gli darò la sua parte fra i grandi,
ed egli dividerà il bottino con i potenti,
perché ha versato la sua vita fino a morire
ed è stato annoverato fra i malfattori;
egli ha portato il peccato di molti e ha interceduto
per i trasgressori.
Isaia 53,9-12
E’ Gesù che accetta liberamente la missione che il Padre gli
ha affidato: morire per riscattare le colpe dei suoi stessi persecutori. Ce lo
dice San Paolo: “Cristo morì per i nostri
peccati secondo le Scritture” (Prima Lettera ai Corinzi 15,3) e “Dio dimostra il suo amore verso di noi
perché mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi” (Lettera ai
Romani 5,8). Ce lo conferma San Pietro : “Egli
fu consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio”
(Atti degli Apostoli 2,23). Ma ancor di più ce lo ha confermato Lui stesso,
nell’ultima Cena: “Questo è il mio Corpo
che è dato per voi” (Luca 22,19) e “Questo
è il mio Sangue dell’Alleanza, versato per molti in remissione dei peccati”
(Matteo 26,28).
Crediamo quindi, anche dai racconti di chi “cristiano” non è stato, che Cristo visse
realmente, fu crocifisso, morì e fu sepolto. Sì, perchè “per la grazia di Dio” egli non soltanto fu crocifisso per i nostri
peccati ma conobbe “la morte a vantaggio
di tutti” (San Paolo, Lettera agli Ebrei 2,9). Conobbe cioè, per tre
giorni, la separazione tra Anima e Corpo: è il mistero del Santo Sepolcro, il
mistero del Sabato Santo. Ciò a dimostrazione dell’umanità di Cristo “vero uomo”, oltre che vero Dio, che
nella sepoltura ha condiviso il destino comune a tutti gli esseri umani.
Salvatore
Salvatore
0 commenti:
Posta un commento